Daniele, il nostro lupetto filosofo, è decisamente cresciuto.
Nell'attesa di diventare magistrato si diletta con il giornalismo, e in occasione dell'hike ha avuto modo di indagare sull'atteggiamento dei romani rispetto alla diversità e all'immigrazione, intervistandoli per strada, nelle piazze, sugli autobus.
“Non sono razzista, però…”
Una giornata nella multiforme e variegata realtà romana per provare a capire cosa, effettivamente, le persone vedano nel diverso. Ho detto persone, non società. Nelle parole di tutti infatti è sempre questa maledettissima società ad essere responsabile. Come se fosse altro. Come se la “società” fosse fatta solo da politici e mass media; ma d’altronde i “mass media” non sono lo specchio di una società? ( in realtà su questo punto si potrebbe discutere a lungo ma è certo che la televisione va accesa ed il giornale va aperto); e Indro Montanelli non diceva forse: “Ogni paese ha i governanti che si merita”? Dunque, non sono proprio le persone che compongono la società? E quest’ultima, poi, di cosa è effettivamente responsabile? Di emarginare chi è diverso, di utilizzare preconcetti nell’approccio con coloro i quali non rispettano determinati targets. Ma lo stesso concetto di diversità è oggigiorno certamente molto labile. Si tratta forse di una peculiarità che valorizza l’individuo. E’ un tema questo, sicuramente interessante, che emerge in una sola delle tante discussioni; oggi in televisione ci va chi è diverso ( magari, anzi spesso, in negativo ). Ma, paradossalmente, proprio chi si distingue diventa un modello per omologare le masse, annullando l’individualità: tutti uguali. Anche qui, ci tengo a puntualizzare, potrebbe sorgere più di una discussione: proprio ad iniziare dalle responsabilità.
La diversità come arricchimento: “non mettere le mutande al Tuareg, ma insegnagli a curare la tubercolosi e tu lasciati insegnare ad essere felice”. Di certo molto lungimirante, ma non è da tutti. L’immagine e la percezione del diverso rimane comunque estremamente stereotipata e talvolta ne derivano etichette e pregiudizi che portano alla diffidenza: nei confronti del barbone, dell’immigrato, dell’islamico;
E soprattutto anche i propositi più buoni, che – posso assicurare - sono quelli prevalenti, si perdono davanti alla paura. E’ un sentimento umano, ed è sacrosanto, ma può talvolta arrivare a guidare pericolosamente l’uomo. Non vi è alcuna intenzione a nasconderla ma nessuno se ne vuole accollare la responsabilità. Sono sempre loro, i mass media. Proprio loro pongono in noi paure, talvolta consapevolmente infondate, ma di cui non si può fare a meno sorgendo, contemporaneamente, il problema per cui se io non sono responsabile della mia paura, certo, questa sarà difficile da combattere; non sempre però ci si trova davanti ad un atteggiamento consapevole. E’ il caso degli anziani, emarginati in quanto emblemi di decadenza, in particolare estetica, e dell’imminenza della morte. Nessuno ci pensa, tranne coloro che svolgono appositi studi, ma l’isolamento nei confronti dell’anziano è sia fisico sia sociale: non si tratta cioè solamente di rinchiuderlo in case di riposo o circoli bocciofili ma di escluderlo totalmente dall’insieme di relazioni sociali che si intrecciano giorno per giorno.
Ma è il disinteresse che, prima dell’odio palese, crea forse quel distacco nei confronti del disagiato; quel distacco che davvero lo rende diverso, nel senso di escluso, emarginato senza considerare cioè la diversità degli uomini come ciò che rende migliore l’umanità. Davanti a senza-tetto o extracomunitari, nessuno si indigna (a meno che non venga chiesto apertamente) né al contrario ci si incuriosisce: bene che vada non si considera.
Non mi interessa: neanche di rispondere alle domande di uno strano tipo vestito di blu con uno strano fazzoletto giallo attorno al collo
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